Joel, nigeriano e Bader, palestinese, vengono inseriti in Pfizer con un contratto a tempo determinato nel 2022, quando l’azienda decide di aprirsi al mondo delle persone rifugiate, grazie alla collaborazione con la cooperativa Sociale On The Road, che gestisce un centro di accoglienza ad Ascoli Piceno.
“La cosa che posso dire è che sono contento di non essere solo. Questo arrivo ha dato un po’ di colore al magazzino!” Ci dice scherzosamente Franklin, collega di lavoro veterano di Pfizer, originario della Tanzania. “Hanno portato sorrisi, un’altra mentalità, allegria e spirito di squadra. Siamo fortunati a lavorare in un’azienda come questa – aggiunge – che contempla l’inclusione di altre culture, ed il fatto che abbia aderito a questo progetto mi riempie di gioia. Ad oggi non è scontato trovare questa apertura. Ho visto i miei colleghi anche un po’ cambiati, nel senso che prima erano un po’ ‘cupi’. Adesso oltre ad un clima più allegro, vedo tanta curiosità nel voler conoscere le altre culture.
“Tutta l’equipe è molto curiosa della loro cultura – ribadisce Chiara Ferranti, supervisore – fanno tante domande, e ci raccontano da dove vengono, le loro esperienze, dove sono stati prima, come lavoravano prima, come stanno adesso qui, dove hanno lasciato le loro famiglie. Sono curiosi e interessati”.
La carta vincente del percorso, sembra essere infatti che tutto lo staff ha abbracciato il progetto, per cui l’inclusione non viene vissuta solo come una decisione ai vertici.
“La cosa più importante è stato preparare i colleghi, prepararci noi, prima del loro arrivo,” dice Francesco Pastore, responsabile warehouse, aggiungendo poi con gli occhi lucidi e la voce emozionata che “il grosso cambiamento che abbiamo notato da quando sono arrivati Bader e Joel è il forte spirito che si è creato nel lavorare con gioia, che rappresenta uno degli elementi che portano al successo una squadra. Non si lavora per dovere, ma si lavora con entusiasmo e si finisce la giornata con il sorriso, quando si va via ci si saluta, ci si abbraccia, anche questo è un grosso cambiamento che ci ha portato l’ingresso e l’inclusione di questi colleghi. Per me è motivo di orgoglio”.
Chiara e Franklin ci raccontano di come i due colleghi nuovi arrivati siano stati accolti ed inclusi anche negli spazi extralavorativi, nella vita di tutti i giorni. Alcuni colleghi hanno aperto le loro case all’ospitalità quando hanno avuto difficoltà a raggiungere il luogo di lavoro, per via di turni o di problemi con i mezzi pubblici.
“Ovviamente non è stato semplice, aggiunge Chiara – soprattutto per noi supervisori, ed in particolar modo nei primi tempi, in cui la lingua è stata un grande scoglio. Abbiamo iniziato a tradurre dall’inglese all’italiano, abbiamo lasciato loro molto tempo per leggere le procedure, le abbiamo tradotte in modo che avessero una consapevolezza del lavoro che avrebbero fatto. Il periodo di affiancamento è stato più lungo rispetto ad un ingresso normale, perché i sistemi sono in italiano, così come le riunioni. Adesso che la difficoltà è superata sono bravissimi, capiscono tutto, parlano anche in ascolano! Però non è stata una cosa semplicissima. Orientativamente ci sono voluti sei mesi per assicurare una totale autonomia”.
Altro ingrediente, a dire di Francesco, oltre alla componente tempo, è la pazienza, non solo per una questione linguistica, ma anche per rendere intellegibile un mondo fatto di regole e procedure standardizzate e controllate, con protocolli burocratici, non sempre scontato per chi ha attraversato altri mondi lavorativi.
“Bader è arrivo completamente a digiuno. Io all’inizio avevo paura perché il nostro mondo è fatto di regole, di estrema attenzione al paziente, quindi un errore non intercettato, soprattutto in un’area di logistica, di magazzino, si ripercuote sul paziente. Quindi mi dicevo ‘Che faccio? Sono veramente convinto? È il caso di prendere questa persona che non conosce per niente la nostra lingua? Però lo abbiamo affrontato, con tanta pazienza, da parte mia e di tutta la squadra. Abbiamo lavorato insieme”.
Tempi lunghi e pazienza che dovevano fare i conti con la voglia e la frenesia di rendersi subito operativi, come ci dirà lo stesso Bader: “Il primo mese, quando ho iniziato, mi hanno fatto fare osservazione, solo io e il supervisore, per vedere come i colleghi lavorano, come funziona l’azienda. Volevo subito iniziare a lavorare, ma mi hanno fatto iniziare gradualmente. Per ogni mansione bisogna fare una formazione con il supervisore o un collega esperto.”
Ad oggi Bader che è la persona che è entrata da più tempo, non solo è operativo ed autonomo in magazzino, ma si interfaccia anche con produzione, la sua crescita ha permesso anche questo passaggio, che inizialmente sembrava impossibile.
Anche Joel, arrivato sei mesi dopo Bader, mettendo piede nel magazzino si è sentito spaesato ed ha esclamato, spalancando gli occhi “Francesco ma qui è enorme, ma io che faccio adesso?”
“L’ho rassicurato – dice Francesco – ‘non ti preoccupare imparerai piano piano’, però anche per lui a distanza di poco tempo cominciò a chiederci di guidare il muletto, lavorare in un’area abbastanza delicata, quella della spedizione e della distribuzione, ma ce l’abbiamo fatta soprattutto con il supporto dei colleghi”.
Merito dell’azienda è stato anche di lavorare molto sulle competenze di base, sulle inclinazioni e sulle motivazioni. “Ci eravamo resi conto, nell’arco dei mesi, della sua propensione a guidare i muletti. Facendo delle chiacchierate abbiamo scoperto che, per diverso tempo nel suo Paese, in Palestina, aveva fatto il tassista. Guidare un’auto o un muletto gli dava soddisfazione. Potergli dare questa possibilità e farlo sentire contento ancora di più sul posto di lavoro è stato giusto per una sua maggiore soddisfazione lavorativa. Mi ricordo il sorriso quando glielo abbiamo detto!”
Un altro aspetto sollevato da Caterina Alfieri, Talent acquisition, è l’atteggiamento nei confronti della relazione gerarchica, soprattutto nella misura in cui questa si configura nell’asimmetria delle posizioni e coinvolge il rapporto uomo-donna, elemento affatto scontato per chi appartiene ad un’altra cultura. Questo elemento emerge, ma tutt’altro che in maniera critica, piuttosto come una capacità di apertura da parte dei beneficiari e di estremo rispetto per le funzioni. Chiara, nel ruolo di supervisore, dice di aver sempre percepito completo rispetto nei confronti suoi e dei suoi colleghi. “Hanno riconosciuto il ruolo del supervisore ed in questo un appoggio per loro, perché hanno visto che eravamo dalla loro parte per aiutarli. Soprattutto per Bader, con la sua cultura, avere un supervisore donna non so se è stato semplice, ma questo non lo ha mai manifestato nei miei confronti, ha sempre mostrato assoluto rispetto, riconoscimento.
Anche Franceso si accorge dello sforzo di comprensione ed accettazione della regola aziendale e culturale da parte del beneficiario: “I primissimi giorni, quando presentai Chiara a Bader come suo supervisore, riferimento e tutor, non vidi in lui un’espressione contenta, capivo che forse stavo andando a toccare qualcosa di particolare. All’inizio c’è stata questa difficoltà, ma non nel riconoscere il ruolo, piuttosto nel riconoscimento della figura femminile. Gradualmente dopo ha capito che poteva fidarsi al cento per cento”.
Avere a mente questo come altri elementi non scontati, pensare preventivamente ad alcuni aspetti culturali lontani da quelli a cui siamo abituati, denota una grande sensibilità da parte dell’azienda che ha anticipato le esigenze che impattano su rendimento, sicurezza, clima e sulla fiducia nella relazione lavorativa.
“Il primo giorno in cui sono arrivati glielo dissi chiaramente – dice Francesco – Guarda Bader, se tu hai bisogno di assentarti per la preghiera, faccelo sapere, anche se rientra in orario lavorativo. Lui rimase sorpresissimo, mi disse ‘Non me lo ha mai chiesto nessuno, l’ho fatto a volte anche di nascosto’. Anche nel mese del ramadan, gli abbiamo chiesto se volesse essere agevolato con i turni ma lui comunque non ha mai richiesto un trattamento particolare. Anche a livello dell’alimentazione, i primi giorni l’ho sempre accompagnato a mensa perché non parlando italiano rischiava di prender una pietanza che a lui poteva sembrare accettabile invece magari era a base di un certo tipo di carne. Ho cercato di assisterlo ed ho informato i dipendenti della mensa. Con Joel non c’è stato problema, ha detto ‘io mangio tutto’!”
Oggi Bader e Joel continuano la loro collaborazione e l’azienda si prepara ad una prossima imminente inclusione, questa volta nel reparto nella produzione, con una funzione diversa, per far fare esperienza ai colleghi, valutare altre funzioni e diversificare le esperienze.
Nella voce dei beneficiari si evince la contentezza di essere stati accolti in una ‘famiglia’ e quell’ l’attenzione alla regola, alla procedura, alla sicurezza e lo sforzo dei colleghi di ‘stargli dietro’ nei primi tempi, vogliono dire tutela e rispetto per la qualità del lavoro, della persona, le sue competenze e la sua sicurezza.
“Faccio spedizioni per i prodotti pronti ad essere inseriti sul mercato. Guido il muletto, trasporto i pallet. Avevo già la patente ma ho fatto un aggiornamento con loro per alzare il livello di sicurezza.” Racconta sorridente Joel. “È un lavoro di gruppo, io prendo la merce dalle scaffalature, dopo che l’incellofanartice ha fatto la sua attività, aspettiamo il camion, e ci occupiamo della spedizione e del ritiro. Con i colleghi mi trovo ‘al top’. Quando sono entrato avevo già lavorato in un’altra azienda, ma in Pfizer il livello di sicurezza è molto alto, tutte le attività che facciamo hanno una procedura ben chiara e stabilita. Questo facilita perché c’è un supervisore di turno.
Il primo mese avevo un po’ di paura, avevo già portato il muletto, ma ero intimorito perché non volevo sbagliare niente, piano piano ho preso confidenza per fare tutte le attività. Qualche volta viene il responsabile e mi sento dire di essere bravo e di questo sono molto orgoglioso. In Nigeria lavoravo come meccanico presso un benzinaio, ma da tanti anni non lo faccio più, ho dovuto ricominciare da zero ma ho appreso qualche esperienza in più.
Mi piacciono tante cose qui: in primis il livello di sicurezza, la collaborazione con i colleghi, poi il lavoro è tranquillo nel senso che tutto va come da procedura: sai quando entri e quando finisci il turno ti fanno staccare, i turni sono sempre rispettati. Lo stipendio arriva in orario, non devi mai chiedere. Franklin poi conosce tutte le persone di Ascoli! Ho conosciuto tanti colleghi italiani che sono molto bravi, mi aiutano al cento per cento. Se loro non mi avessero aiutato non avrei capito nulla. Ad oggi abito da solo, sto in condominio e pago l’affitto.
“In Pfzer ho iniziato nel magazzino, prima nella ricezione della merce, poi mi hanno passato a carrellista, con il muletto piccolo. – Racconta Bader – Avevo già fatto un corso per prendere la patente di muletto, ma il lavoro da magazziniere l’ho imparato in Pfizer. In Palestina la mia esperienza era completamente diversa: ho fatto il pittore, il tassista, muratore, commesso. Qui mi piace molto e mi piacerebbe continuare con questo lavoro. Lavoro in ottime condizioni, anche fisiche: si lavora all’interno, non è caldo né freddo, non è dura fisicamente, e i colleghi, i capi e i supervisori sono tutti buoni con me.
All’inizio è stato difficile per la lingua. Quando ho iniziato capivo metà del discorso, adesso invece la maggior parte, anche se non sono ancora sicuro al cento per cento. Quando ho avuto difficoltà con l’italiano tutti sono stati molto pazienti con me nello spiegarmi le cose. Posso dire che i miei colleghi mi piacciono molto, anche adesso, a distanza di un anno”.
“Noi dall’inizio ci siamo detti che ‘non cambieremo mai la vita di queste persone, ma dare loro questa opportunità è qualcosa di meraviglioso, perché si crea una professione, si crea una possibilità che possono giocarsi dovunque, non necessariamente qui. – sottolinea ancora Francesco – Domani Bader e Joel avranno la possibilità di rivendersi la professione, di fare qualsiasi cosa. Conoscere anche il dialetto ascolano gli permette di avere possibilità anche per colloqui futuri. Lo scopo era aiutarli ad integrarsi non solo in azienda ma anche in una comunità’.